"Al Condominni" poesia brillante in dialetto parmigiano di Bruno Pedraneschi,letta da Enrico Maletti

Estratto di un minuto del doppiaggio in dialetto parmigiano, realizzato nell'estate del 1996, tratto dal film "Ombre rosse" (1939) di John Ford. La voce di Ringo (John Wayne) è di Enrico Maletti


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sabato 12 maggio 2012

Il Vangelo della domeniica. Commento di Don Umberto Cocconi





Pubblicato da Don Umberto Cocconi il giorno sabato 12 maggio 2012 alle ore 7,34

Domenica 13 maggio 2012.
Vangelo secondo Giovanni (15,9-17) Gesù disse ai suoi discepoli: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri”.

Che cosa fa l’amore nella nostra vita? Che cosa succede quando ci sentiamo amati? Siamo molto felici! E’ un trailer di paradiso. Che forza incredibile, che forza creatrice è l’amore! Mentre racconta, Gesù ci fa partecipi della sua relazione col Padre, ci dice come si sente amato. L’amore del Padre lo fa “esistere”, perché questo amore non è generico, ma generativo. E’ un amore che determina  la sua condizione “ontologica”: lo fa essere figlio. L’amore con il quale Gesù si sente amato dal Padre lo “genera” come figlio. Gesù si sente figlio e quindi disponibile a compiere la volontà del Padre perchè «[Dio] … vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (Lettera a Timoteo 3,4). Che cosa vuol dire essere figli, sentirsi figli?  E’ l’esperienza fondamentale, fondante per il nostro essere nel mondo. Significa aver sperimentato prima di ogni altra cosa l’amore di un altro nei miei confronti, un amore incondizionato che mi porta a scoprire, guardando il suo volto,  la mia identità.  Da ciò si genera la fiducia che mi sostiene, mi protegge e mi fa scoprire che sono prezioso non solo agli occhi dell’altro, ma prima di tutto per me stesso. Un padre e una madre si prendono cura del figlio e impegnano il loro tempo per lui. «Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia» (Salmo 130).

 Al centro del Salmo si staglia l’immagine di una madre col bambino, segno dell’amore tenero e materno di Dio, come si era già espresso il profeta Osea: «Quando Israele era giovinetto, io l’ho amato... Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare». «Il bambino, a cui il Salmista rimanda, è legato alla madre da un rapporto ormai più personale e intimo, non quindi dal mero contatto fisico e dalla necessità di cibo. Si tratta di un legame più cosciente, anche se sempre immediato e spontaneo. È questa la parabola ideale della vera “infanzia” dello spirito, che si abbandona a Dio non in modo cieco e automatico, ma sereno e responsabile» (Benedetto XVI). Il bimbo svezzato è già grandicello, capace di riconoscere sua madre e di correre a rifugiarsi tra le sue braccia con consapevole fiducia. Non si limita a mangiare e dormire, ma pur essendo ancora bambino ha già cominciato a muoversi, a lottare per ottenere le cose, per affrontare la vita. In questa “lotta” egli ha trovato un punto di riferimento sicuro: le braccia di sua madre. Così siamo noi di fronte a Dio: bimbi svezzati che trovano tra le sue braccia la sicurezza, la guida, il sostegno. E’ un amore, quello genitoriale, che ti dà fiducia, ti fa sperimentare la gioia dell’affidamento, ti dà sicurezza e nel contempo un certo orgoglio,  una sorta di “santa superbia”: ti senti capace di fare l’impossibile. Racconta Francesca, una mamma: «A volte, i bambini hanno paura. Non conoscono completamente la vita e può capitare che siano timorosi di fronte a una novità o a qualcosa che non riescono a capire. Quando mia figlia si spaventa, io la abbraccio e le ricordo che c’è una presenza forte, nella sua vita, che la protegge sempre: suo padre. Le dico: ‘Bella di papà! Qui c’è papà tuo che ti difende. Nessuno potrà farti del male’. Così la mia bambina si tranquillizza, e non ha più paura di nulla».   
                                                                                                                                                                                                           Ci sono termini  che in un discorso fanno la differenza, che cambiano tutto il significato dell’argomento. Si pensi, per esempio, alla parola «come»: è una preposizione modale che descrive l’intensità, la modalità di un’azione, in questo caso dell’amore che il Padre ha per il figlio e l’amore che Gesù ha verso di noi: «Come il Padre ha amato me così io ho amato voi ... Amatevi come io vi ho amato». Come, in che modo, si sono sentiti amati i discepoli da Gesù?  Da che cosa hanno compreso che Gesù li amava? Come li ha trasformati il suo amore? Essi hanno compreso, giorno dopo giorno, che Gesù li considerava suoi amici e lo ha detto loro esplicitamente: «Voi siete i miei amici». Il suo amore ci eleva a una dignità superiore a quella dei servi (benché “servi del Signore” sia l’appellativo dei profeti, ad esempio, e indichi tradizionalmente la più grande prossimità all’Altissimo). «Non vi chiamo più servi» sottolinea Gesù, con intenzione. «Vi ho chiamati amici». Che cosa indica questa piccola grande parola, a quale condizione allude? Allude alla stessa “identità”, ossia siamo in un rapporto di ugualianza e reciprocità. Vivere le stesse esperienze, crescere insieme: questo fa di noi degli amici. Chi di noi non ha mai sentito, in un momento particolare della sua vita, qualcuno dirgli: “Tu sei mio amico” e sentirsi così strappato dalla solitudine? Ecco l’esperienza nuova, di un amore diverso da quello dei genitori: un amore che ti pone in una relazione di reciprocità, nella quale diventi capace di donare “ciò che sei”. Ti giochi la tua identità e hai la possibilità di confidare in qualcuno e di condividere con lui i tuoi segreti. «Tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi»: è da queste parole che i discepoli comprendono di essere suoi amici. Gesù così li fa partecipi del suo mondo, del mondo del Padre. Infatti ciò accade nell’amicizia autentica, capace di consolidare un legame profondo: tu vivi per l’altro e lui per te, in una comunione d’intenti che genera via via, con naturalezza, la condivisione e la fraternità.  

Il film “Hunger” (“Fame”) racconta con crudo realismo il calvario personale di Bobby Sands (Michael Fassbender), attivista dell'IRA che nel 1981 guidò i detenuti della prigione di Long Kesh in uno sciopero della fame, per ottenere dal governo britannico lo status di prigionieri politici.  Il corpo è sempre al centro della rappresentazione del regista McQueen: un corpo umano straziato dalle botte, dalla fame, dalle infezioni, lacerato tanto quanto quello della patria di Bobby Sands  - l’Irlanda del Nord -  dilaniata dalle lotte intestine tra cattolici e protestanti, ma anche divisa in due da una frattura che ne segna la storia. Bobby Sands e i suoi compagni lottano, sì, per ciò in cui credono, ma la loro battaglia, trasfigurata nel martirio, diventa la battaglia di ogni uomo che anela, costi quel che costi alla libertà. Sands oppone tutto se stesso contro la cieca ottusità di un sistema coercitivo e arbitrario e usa il proprio corpo, in una sfida fino all’ultima respiro, come arma. “Hunger” è soprattutto, una parabola della lotta interiore per l’indipendenza e la libertà; una parabola che procede per simboli antitetici rispetto a quelli canonici, in cui la nudità diventa civiltà, lo sporco purificazione, il lavarsi un atto che infanga la dignità della persona, dove l’auto-annientamento è paradossalmente l’unico mezzo che resta per autoaffermarsi. Non è un caso che il «martirio di Bobby Sands, immagine cristologica torturata, passi per il corpo, ma anche per lo sguardo trasparente, freddo e profondamente disperato di quel grandissimo attore che è Michael Fassbender (da cui traspare) la scintilla che fa grande un uomo» (Lara Ampollini). A volte la storia chiede dei gesti estremi che possono portarti a offrire la tua vita per un ideale, per una causa, che agli occhi di tanti risulta incomprensibile. Sands accetta questa sfida con consapevolezza e vive a suo modo con amore grande e una spiritualità perversamente ascetica il suo dare “la vita per i propri amici”, ossia per la libertà.
(DON UMBERTO COCCONI)

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