"Al Condominni" poesia brillante in dialetto parmigiano di Bruno Pedraneschi,letta da Enrico Maletti

Estratto di un minuto del doppiaggio in dialetto parmigiano, realizzato nell'estate del 1996, tratto dal film "Ombre rosse" (1939) di John Ford. La voce di Ringo (John Wayne) è di Enrico Maletti


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domenica 8 luglio 2012

Il Vangelo della domenica. Commento di don Umberto Cocconi





Pubblicato da Don Umberto Cocconi il giorno domenica 8 luglio  2012 alle ore 7,00

 
Dal Vangelo secondo Marco: Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.

Perché siamo così abituati a dare un’“etichetta” alle persone? Affibbiamo loro un titolo, le marchiamo, le congeliamo dentro un’identità prestabilita. Sembra che il nostro sport preferito sia quello di “impallinare” lil nostro prossimo! Appena uno o una acquista qualche notorietà, esce per così dire dal coro, dalla nostra cerchia, eccoci subito pronti a snocciolare in pubblico tutta la sua vita privata per “ridimensionarlo”, per renderlo agli occhi di tutti un pover’uomo, una povera donna. Nemmeno Gesù è sfuggito a questo processo di “mortificazione sociale”. Aveva vissuto a Nazaret per trent’anni: dunque, si doveva sapere tutto di lui, era inaccettabile che fosse diventato “qualcuno”. Nascono tanti interrogativi: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data?». Che studi ha fatto, che scuole ha frequentato? E poi – sottolineatura fondamentale – conosciamo tutto della sua famiglia. Non è «il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». A volte, pensiamo di sapere tutto di una persona che abbiamo avuto sotto i nostri occhi per anni, e invece siamo rimasti in superficie, non siamo stati capaci di entrare minimamente nel suo mistero. Abbiamo fatto solo gossip, semplici chiacchiere da bar su di lei. Invece di cogliere la sua unicità, abbiamo incasellato il suo vissuto nei nostri schemi mentali. Qual è il risultato (terribile, talvolta)? Alla fine, “tu diventi quello che io credo tu sia!”.

E’ un’operazione comoda, in fin dei conti, che ci fa risparmiare energie; l’attenzione e l’esercizio della sensibilità, la pazienza e la cautela nel giudizio sono ben più dispendiose. Si interrogano, gli abitanti di Nazaret,  persino sulle mani di Gesù: come possono le mani di un semplice falegname fare i prodigi che hanno fatto? Quasi che quei prodigi dovessero necessariamente trasfigurare il Nazareno, nel senso di fargli perdere la sua umanità. E’ proprio l’uomo Gesù, invece, che compie le opere di Dio. Proprio perché le sue mani si sono sporcate, contaminate, perché hanno toccato la materia (in greco si usa la stessa parola per indicare materia e legno: yle), esse sono capaci di dare la vita, la vita vera. Non “mani pulite”, ma mani callose, mani che conoscono la fatica del vivere, mani di cui ti puoi fidare. Le mani che fanno prodigi, le mani la cui gestualità accompagnava parole che nessun uomo può pronunciare, le mani che hanno spezzato il pane, sono le stesse che hanno compiuto (con fatica, anche, e con amore) i gesti più ordinari.      

Gesù è troppo ordinario per gli abitanti di Nazaret. Umano, troppo umano, tanto da apparire tale e quale uno noi: un Gesù inaccettabile. Ma è tanto diverso per noi, oggi? Anche per noi è incomprensibile che Dio si sia “fatto carne”, che abbia voluto assumere la nostra debolezza, contingenza, precarietà, vulnerabilità. La nostra normalità.  Non vogliamo accettare un Gesù – lasciatemelo dire – senza aureola! Eppure, proprio in questo ebreo marginale si manifesta la gloria di Dio, in lui abita corporalmente la pienezza della divinità. Gesù si è spogliato della sua divinità per assumere la condizione di servo, ed è questa la nuova immagine di Dio che egli ci vuole rivelare, con la sua vita. Ma noi vogliamo un Dio degli eserciti, un Dio in trono, un Dio impassibile, un Dio perfetto, un Dio “super-uomo”.

Siamo noi, con le nostre chiusure mentali di uomini devoti e religiosi, che blocchiamo l’agire di Dio. Anche oggi Gesù si meraviglierebbe della nostra  incredulità! Neppure quella, tuttavia, lo ferma e lo spaventa. Anche se non gli permettiamo di compiere prodigi, non per questo lui si tira indietro. Continuerà ad offrirci ogni giorno l’opportunità di uscire dalla nostra “prigione” interiore, di aprire uno spiraglio di disponibilità alla conversione del nostro sguardo che crede di sapere, di aver già capito tutto di noi, degli altri, della vita, di Dio stesso. Il film di questa settimana, “L’amore dura tre anni”,  narra la vicenda di Marc Marronier, critico letterario di giorno e cronista mondano di sera, che un matrimonio andato male ha portato a una visione cinica dell’amore. Anche l’amore coniugale ha una data di scadenza: non più di tre anni dopo il “sì” scambiato sull’altare! Marc ne è talmente convinto da scrivere un libro intitolato appunto “L’amore dura tre anni”. 

Ha ragione Charles Bukowski, dunque, a paragonare l’amore a una nebbia inconsistente che si dirada ai primi raggi del mattino? Anche sui nostri amori è scritto “best before…”, “da consumarsi preferibilmente entro...”, come un genere alimentare? Viviamo un tempo in cui tutto è, o appare, precario: sembriamo non cercare nulla più che la “morosa” o il “moroso” interinale... Deluso e amareggiato, Marc decide di passare il resto dei suoi giorni in solitudine, ma ecco l’imprevisto: l’incontro con Alice. Marc si innamora, ancora una volta, e il rapporto con Alice lo costringe a ricredersi: le sue convinzioni iniziano pian piano a vacillare, e dovrà rimettere in discussione i suoi principi, le sue certezze sull’amore e sui legami affettivi. Con il passare del tempo, si ritroverà a vivere una sorta di conversione. Pensava e credeva che l’amore durasse tre anni e non di più – un anno di passione, un anno di tenerezza e infine un anno di noia – e scoprirà invece che nonostante i corrosivi dell’amore  (gli egoismi individuali, la noia, la routine, la gelosia e le bugie)  è ancora possibile costruire nella vita di coppia un amore non effimero, che sveli la sua “vocazione” profonda a durare per sempre.
DON UMBERTO COCCONI


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