"Al Condominni" poesia brillante in dialetto parmigiano di Bruno Pedraneschi,letta da Enrico Maletti

Estratto di un minuto del doppiaggio in dialetto parmigiano, realizzato nell'estate del 1996, tratto dal film "Ombre rosse" (1939) di John Ford. La voce di Ringo (John Wayne) è di Enrico Maletti


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domenica 10 novembre 2013

Il Vangelo della domenica. Commento di Don Umberto Cocconi.





Pubblicato da Don Umberto Cocconi  il giorno domenica 10 novembre 2013 alle ore 7,17


Si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie».  Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui» (Vangelo secondo Luca).
Anche oggi molte persone dicono di credere in Dio, ma nutrono mille perplessità sulla resurrezione e in genere sulla vita dopo la morte. Sì, Dio esiste, o almeno c’è una “causa superiore”, ma credere che ci sia una vita dopo la morte non è così scontato. Di questo stesso parere erano all’epoca di Gesù i sadducei, i sacerdoti di Gerusalemme, che officiavano solennemente nel tempio, ma non credevano nella resurrezione. Di fronte al rabbì di Nazaret, che parla del Regno di Dio e della resurrezione, questi “uomini del sacro” pongono un dilemma insidioso e paradossale, col quale non solo vogliono metterlo in ridicolo ma addirittura banalizzare, ridicolizzare il suo messaggio, per i più così sconvolgente e per le loro orecchie così astruso. Gesù, che raccoglie la provocazione e argomenta, ribaltando da par suo i loro concetti, propone una visione, davvero potente e “sconvolgente” dell’identità e della vocazione dell’essere umano. Innanzitutto, la vita dell’uomo e della donna, quando giungerà il giorno della loro resurrezione, non sarà più racchiusa dentro il ruolo che aveva occupato su questa terra. Anche a noi, non solo ai sarcastici sadducei, sarà capitato di chiederci se chi è stato padre, madre, zio, nonno, presidente, prete, lo sarà anche nel mondo soprannaturale; la vita dopo la morte è simile a quella di quaggiù? Allora, che diversità c’è tra i due mondi? E se poi ho sbagliato il mio ruolo quaggiù, sarò ancora prigioniero del mio involucro sociale anche lassù? Quante domande, alle quali le parole di Gesù offrono potenti indizi di risposta! Qui, sulla terra, la vita ci consegna dei ruoli, dei compiti, entro i quali siamo chiamati a esercitare la nostra personalità. E tuttavia, quello che siamo non si potrà mai esaurire nel nostro essere padre, madre, nonno, e così via. E non siamo forse eccedenti, anche rispetto al nostro essere italiani, di campagna o di città?

Viviamo nel tempo e nello spazio, certamente, e questi ci condiziona, ma siamo un “di più” rispetto al tempo, allo spazio e a ciò che la vita ci ha imposto di essere. Ci sarà un giorno in cui uscirò dallo scafandro, dal bozzolo più o meno adeguato e confortevole, nel quale ho vissuto, per essere in pienezza figlio di Dio. «Ciò che saremo non è stato ancora rivelato», scrive Giovanni nella bellissima Prima lettera: sappiamo però che, se già fin d’ora siamo figli di Dio, nella nuova vita ci ritroveremo simili al Signore, capaci di vederlo e riconoscerlo per quello che Egli è. Chissà cosa sarà del nostro vissuto emozionale… Avremo la possibilità di andare oltre le "linee di confine", deborderemo finalmente in tutta la pienezza e la verità dell’amore? Le parole di Gesù ci autorizzano a sperarlo. Che prospettiva meravigliosa! Una nuova “società” di figli e figlie, che non devono più affannosamente cercarsi per celebrare, in modo più o meno decodificato, la gioia della comunione, per esprimere la fecondità della vita, ma saranno abbracciati nell’unica sorgente della Vita divina. Individui liberi, liberi ma in comunione, come astri  luminosi nel cielo. Quello che Gesù sembra volerci dire, in ogni modo, è che ognuno di noi è più grande del ruolo che ha ricoperto nella propria esistenza, più grande delle scelte e delle cose fatte. Le tante situazioni della vita hanno fatto di noi degli “accidenti”, ora diventeremo solo “sostanza”, secondo il linguaggio di Aristotele: «Accidente è tutto ciò che appartiene a una cosa e può essere affermato di essa, ma non sempre. Sostanza, invece, è ciò che è immanente a questa cosa ed è causa del suo essere».

Del resto, il nostro Dio non è Dio del cielo, non è Dio del paese, non è Diodell'istituzione regale, bensì il Dio di un arameo errante: di un uomo che non ha patria e che ovunque è straniero. E quest'uomo gli è talmente caro che il tre volte Santo accetta volentieri di prenderne il nome. Infatti, che cosa significa Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, se non che Dio ha nome soltanto in riferimento a ciascuno, di coloro che ama? Un giorno, un discepolo chiese a un maestro della legge: «Perché è detto “il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe” e non “il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe”?». E il maestro rispose: «Perché Isacco e Giacobbe non si appoggiarono sulla ricerca e sul servizio di Abramo, ma ricercarono da soli l’unità del Creatore e servirono Dio in modo diverso da Abramo». Attraverso di te conosco Dio come non l’ho mai conosciuto, per cui possiamo parlare del Dio di Alessandro, del Dio di Domenico, del Dio di Francesco… C’è una rivelazione continua del mistero di Dio, che si manifesta attraverso ciascuno di noi.
«Non è un buon momento, ma può senz’altro peggiorare»: inizia così il film “Una Piccola Impresa Meridionale” di Rocco Papaleo. In effetti, la vicenda si snoda in un contesto a dir poco turbolento. Don Costantino è stato un prete, si è innamorato, si è spretato e poi è stato mollato. La sua “lei”, evidentemente, amava il prete e non l’uomo dentro la tonaca. Il suo piccolo dramma va ad aggiungersi allo scandalo della sorella Maria Rosa, fuggita dopo appena sei mesi di matrimonio con l’amante, lasciando nella vergogna i familiari e il marito “tradito e abbandonato”. Colonna portante delle tante storie che s’intrecciano, nella suggestiva “location” di un faro in riva al mare, è la madre del protagonista, Stella, che pensa bene di confinare lo scandaloso figlio al faro, lontano dalle chiacchiere di paese.

L’edificio cadente diventa una sorta di “casa di accoglienza” per ogni sconfitto della vita, che non si ritrova più nel ruolo, in cui la società lo ha confinato. Oltre a Costantino, vi troveranno rifugio Magnolia, una giovane prostituta “in pensione”, il cognato tradito, sua moglie, una giovane badante, e da ultima, ma non meno significativa, una società familiare di ristrutturazioni, composta da ex circensi, con una bambina di nome Mela. Nel faro, l’ex prete cerca di rimettere insieme i pezzi, quelli della sua anima e quelli, molto materiali, che cadono dal soffitto della proprietà di famiglia, da tempo abbandonata. Al gruppo, infine, si unirà anche la madre dell’ex-prete, che, pur condividendo la mentalità dei compaesani, si ritroverà invece ad accettare il destino della sua scombinata parentela. Il vecchio faro isolato, arroccato sul mare, non tarda così a trasformarsi in un bizzarro refugium peccatorum. Ognuno dei personaggi nasconde, però in sé, risorse di umanità che sbocciano quasi improvvisamente, in maniera del tutto naturale, sotto i raggi di un sole bellissimo e nel calore di un nuovo intreccio delle relazioni umane.

Questi “sgangherati” protagonisti rinascono dentro le stanze di un vecchio edificio a rischio di crollo, ma che ancora possiede un suo fascino e una ragione di esistere, sorretto com’è da fondamenta solide. Il faro, che certamente era stato costruito, per indicare la rotta ai naviganti, con il passare degli anni, torna ad esercitare la stessa funzione sui confini dell'anima; si trasforma così da luogo di eremitaggio, nell’epicentro di una “resurrezione” tangibile, dove la piccola Mela, figlia del titolare dell'impresa di ristrutturazioni, saprà tirar fuori il meglio da tutti. Questi adulti, falliti, secondo la morale di paese, diventeranno invece maestri nell'insegnare a Mela la disciplina e la grammatica, la musica e la danza. La piccola impresa meridionale compie poi un miracolo, quando ristrutturerà il vecchio faro e i suoi inquilini finiranno per ristrutturare nel contempo se stessi e i loro rapporti interpersonali. Questi, così, seguono poco alla volta un percorso di vera emancipazione, riescono a scavalcare la soglia del pregiudizio e dei ruoli che la vita aveva loro riservato. «Il sentimento a volte trova fessure invisibili in cui infilarsi - dice il regista Rocco Papaleo - proprio come la pioggia che filtra tra le crepe di un faro malandato, fino a gocciolarti sulla testa, svegliandoti dall'incuria in cui indugiavi» permettendoti di andare oltre te stesso.
(DON UMBERTO COCCONI)

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