"Al Condominni" poesia brillante in dialetto parmigiano di Bruno Pedraneschi,letta da Enrico Maletti

Estratto di un minuto del doppiaggio in dialetto parmigiano, realizzato nell'estate del 1996, tratto dal film "Ombre rosse" (1939) di John Ford. La voce di Ringo (John Wayne) è di Enrico Maletti


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domenica 3 novembre 2013

Il Vangelo della domenica. "La chiamata di Gesù al pubblicano Zaccheo". Commento di don Umberto Cocconi.

 
 
 
Pubblicato da Don Umberto Cocconi  il giorno domenica 3 novembre 2013 alle ore 8,20
 
Gesù entrò nella città di Gèrico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zacchèo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!». Ma Zacchèo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (Vangelo secondo Luca).
 
Mi sono sempre chiesto, prima dell’epoca di Internet (adesso, basta un clic!) come fosse una pianta di sicomoro, visto che dalle nostre parti queste piante non crescono. Senza quell’albero benedetto, l’incontro tra Gesù e Zaccheo non sarebbe mai potuto avvenire. In effetti, perché due persone possano incontrarsi, non basta il loro desiderio, ma è pure necessario un luogo che renda possibile il “rendez-vous”. Zaccheo desidera vedere Gesù, ma è molto piccolo di statura e la gran folla gli impedisce il contatto visivo che evidentemente desidera da tempo. Per questo ha un’ispirazione geniale: salire su una pianta che cresce nelle vicinanze, passaggio obbligato per Gesù che “deve” entrare nella città, proprio da quella parte; un  eccellente punto strategico, dunque. La sorpresa riservata a Zaccheo, però, non starà tanto nel riuscire a vedere Gesù, ma nell’emozione inattesa di essere visto e guardato da Lui. Che cosa avrà provato Zaccheo, quel giorno, sentendo quello sguardo su di sé? L’evangelista Luca dice che Gesù non solo alzò lo sguardo sul piccolo e temuto pubblicano, ma lo chiamò per nome e lui scese in fretta dall’albero pieno di gioia. “Ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni”, dicevamo qualche giorno fa a proposito della festa dei santi, onomastico di tutti noi. Tutti i presenti consideravano Zaccheo un personaggio orribile, un traditore venduto al nemico, sfruttatore del proprio popolo; quante volte egli avrà sentito gli occhi di tutta la comunità puntati come armi da fuoco su di lui: odioso esattore delle tasse per conto dei romani! Occhi carichi di rimprovero e di livore, che probabilmente lo avevano convinto nel profondo di essere un “uomo sbagliato”. Ma ecco il misterioso rabbì di Nazaret, quello di cui tutti parlano, uno che non assomiglia a nessun altro, nelle parole e nei gesti, e proprio lui, vede ciò che gli altri non sanno vedere, alza lo sguardo a colpo sicuro e chiama per nome colui che tutti disprezzavano. Zaccheo non potrà più dimenticare quello sguardo e quella voce, che lo chiama con una naturalezza talmente autorevole da trasformarlo in una persona nuova.

Proviamo a pensare, per un istante, a tutti quelli che guardandoci ci hanno riscattato, ci hanno liberato dalla nostra solitudine, dalla nostra tristezza e dai nostri sbagli; ci sono sguardi che giudicano e condannano, certo, ma ci sono anche quegli sguardi intensi che liberano, che ti rendono “creature nuove”. Lo sguardo che ha illuminato Zaccheo gli dà anche la possibilità di “vedere” con occhi nuovi Colui che gli sta davanti: per questo il piccolo pubblicano si rivolge all’uomo di Nazaret chiamandolo istintivamente Signore. In quel momento, ha capito veramente chi è Gesù: il peccatore riconosce “il Giusto”. Quando ti senti amato per quello che sei, quando ti senti amato nella tua pochezza o piccolezza, avviene dentro di te un profondo cambiamento, una forma di conversione. Se prima eri attaccato alle cose e queste erano il tuo mondo, il modo per farti accettare, ora, davanti a quello sguardo rigenerante, non desideri altro che lasciare tutto e scegliere Lui solo. Zaccheo scopre che sentirsi amato è la più grande ricchezza, il tesoro vero della sua vita: le cose di questo mondo si relativizzano, non lo “possiedono” più, e quest’uomo, finalmente libero, può aprirsi alla condivisione e al dono. La folla assiepata lungo le strade di Gerico, che prima osannava Gesù, ora si trasforma in una folla giudicante, che non nasconde il disappunto nei suoi confronti: com’è possibile che un profeta così straordinario decida di andare ad alloggiare proprio in casa di un peccatore, e quale peccatore, poi! La simpatia che Gesù dimostra a Zaccheo gli fa perdere ben presto il consenso della folla, che rimane frustrata nelle sue attese e nei suoi giudizi (o pregiudizi), e si abbandona alla mormorazione e alla critica. Gesù però non si piega al ricatto della notorietà, perché non mira al successo personale: è Zaccheo che conta, per Lui, l’uomo che tutti consideravano peccatore e perciò perduto. Per salvarlo, Gesù è disposto a rimetterci la reputazione, coerentemente con lo scopo, dichiarato, della sua venuta nel mondo: “salvare chi si è perduto”.
 
 
Anche il film “Gravity” racconta di una donna che si perde e che troverà la salvezza; con lei è tutta l’umanità a intraprendere un cammino verso un nuovo inizio. L’ultimo film di Alfonso Cuaròn è proprio la narrazione di un percorso di salvezza, non solo fisica, ma anche interiore. Guardando “Gravity” ogni forma di passività è bandita, ogni rilassamento è impossibile, persino respirare regolarmente diventa più difficile. La dottoressa Ryan Stone, ingegnere biomedico, insieme ad altri due membri dell’equipaggio dello Space Shuttle, tra i quali il capitano Matt Kowalsky, stanno compiendo alcune operazioni di manutenzione al telescopio Hubble. Tutto sembra svolgersi nel migliore dei modi: una tranquilla passeggiata spaziale di routine. L’imprevedibile però è dietro l’angolo e irrompe drammaticamente nella vita dell’equipaggio, con una pioggia di detriti spaziali che colpiscono come un’onda fulminea gli astronauti, causando la distruzione dello Shuttle. La dottoressa Stone annaspa, quasi soffoca, viene sbattuta in tutte le direzioni dall'assenza di gravità e vaga nel nulla dello spazio silenzioso, come una piuma solitaria alla ricerca di un appiglio, di una soluzione, di un approdo di salvezza, mentre nel contempo teme, soffre, si arrende, spera, agisce, esilmente ancorata al suo compagno di sventura. In ogni fase del suo umanissimo calvario spaziale, noi non stiamo lì a guardarla, non siamo nemmeno “con” lei: non possiamo fare a meno di identificarci, commossi. Smarrita nel buio siderale, questa donna – immagine simbolica di ogni essere umano - dovrà riuscire a sconfiggere il buio che è dentro di lei e a ritrovare una scintilla di vita, per riuscire a reagire nelle circostanze estreme nelle quali, avversità dopo avversità, si verrà a trovare. Tema portante del film è quello della Ri-nascita dell'Uomo, in tutte le sue fasi.
 
Il cavo che collega i due astronauti è come un cordone ombelicale; la Soyuz diventa un utero biomeccanico per rigenerare una Ryan Stone in procinto di morire; la caduta sulla Terra con la navicella cinese è un seme che riporta la vita sul pianeta; l'acqua del mare è la culla della vita. Il personaggio si libera dello scafandro, della pelle artificiale morta, per poi strisciare boccheggiante sulla spiaggia argillosa, mettersi faticosamente ritta e infine camminare: in breve, per risorgere. «One hell of a ride», una storia pazzesca da raccontare: le parole pronunciate da Ryan Stone sintetizzano con efficacia il cuore pulsante di “Gravity”, vertiginosa epopea spaziale che, progressivamente, diventa un'avventura tutta interiore, concentrata nella mente e nel corpo della sua vera protagonista. «Non chiamatela fantascienza: è un film sulla rinascita, “Gravity”, sul sopravvivere o, meglio, sul “ripartire”. Una metafora della solitudine, un dramma esistenziale prima che spaziale, un viaggio anche interiore nell’avvincente, drammatico, coming home dell’anima» (Filiberto Molossi). Il ritorno sulla Terra si fa metafora di un nuovo inizio per tutta l’umanità: è un ricominciare la vita, quella stessa vita che aveva perso ogni significato e ora si riaccende vigorosa, come la luce di una stella.  
(DON UMBERTO COCONI)

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