"Al Condominni" poesia brillante in dialetto parmigiano di Bruno Pedraneschi,letta da Enrico Maletti

Estratto di un minuto del doppiaggio in dialetto parmigiano, realizzato nell'estate del 1996, tratto dal film "Ombre rosse" (1939) di John Ford. La voce di Ringo (John Wayne) è di Enrico Maletti


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domenica 13 aprile 2014

Il Vangelo della domenica. Commento di don Umberto Cocconi.




Pubblicato da Don Umberto Cocconi  domenica 13 aprile 2014   alle ore  8,11

Allora uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariota, andò dai sommi sacerdoti e disse: «Quanto mi volete dare perché io ve lo consegni?». E quelli gli fissarono trenta monete d'argento. Da quel momento cercava l'occasione propizia per consegnarlo … Venuta la sera, si mise a mensa con i Dodici. Mentre mangiavano disse: «In verità io vi dico, uno di voi mi tradirà». Ed essi, addolorati profondamente, incominciarono ciascuno a domandargli: «Sono forse io, Signore?». Ed egli rispose: «Colui che ha intinto con me la mano nel piatto, quello mi tradirà. Il Figlio dell'uomo se ne va, come è scritto di lui, ma guai a colui dal quale il Figlio dell'uomo viene tradito; sarebbe meglio per quell'uomo se non fosse mai nato!». Giuda, il traditore, disse: «Rabbì, sono forse io?». Gli rispose: «Tu l'hai detto» … Mentre parlava ancora, ecco arrivare Giuda, uno dei Dodici, e con lui una gran folla con spade e bastoni, mandata dai sommi sacerdoti e dagli anziani del popolo. Il traditore aveva dato loro questo segnale dicendo: «Quello che bacerò, è lui; arrestatelo!». E subito si avvicinò a Gesù e disse: «Salve, Rabbì!». E lo baciò. E Gesù gli disse: «Amico, per questo sei qui!». Allora si fecero avanti e misero le mani addosso a Gesù e lo arrestarono … Allora Giuda, il traditore, vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì e riportò le trenta monete d'argento ai sommi sacerdoti e agli anziani dicendo: «Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente». Ma quelli dissero: «Che ci riguarda? Veditela tu!». Ed egli, gettate le monete d'argento nel tempio, si allontanò e andò ad impiccarsi. Ma i sommi sacerdoti, raccolto quel denaro, dissero: «Non è lecito metterlo nel tesoro, perché è prezzo di sangue» (dal vangelo secondo Matteo).
 

Entrare nella mente, o perfino nel cuore di una persona, è cosa ardua, poiché a volte, non riusciamo neppure a capire noi stessi, tanto siamo complicati, figuriamoci poi se riusciamo a capire le ragioni e i comportamenti degli altri! Il tradimento di Giuda ha sempre suscitato dubbi e domande. Possibile che questo amico e discepolo di Gesù, che aveva la stima di tutta la comunità, tanto da essere l’“economo” del gruppo, abbia potuto consegnare Gesù ai suoi giustizieri, per trenta denari? Giovanni definisce Giuda, senza mezzi termini, un “ladro”. Eppure questa definizione lapidaria, che si presta come sempre a letture diverse, non ci basta, non ci soddisfa, se si va a ripercorre la grande pagina di Matteo: «Giuda, il traditore, vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì e riportò le trenta monete d'argento ai sommi sacerdoti e agli anziani dicendo: “Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente”». E’ una notazione importante perché solo allora Giuda comprende le conseguenze tragiche e irreversibili del suo gesto, come se non si fosse aspettato una simile conclusione nella vicenda del suo Rabbì. Giuda voleva forse mettere Gesù alle strette, costringerlo a un confronto chiarificatore con i sacerdoti, costringerlo a rivelarsi con chiarezza? Oppure, attraverso una severa “regolata” da parte del clero sadduceo, sperava che Gesù avrebbe capito di aver “sbagliato politica”? O avrà pensato addirittura che il Nazareno, così “potente in parole e in opere”, fosse invulnerabile? Al di là delle sue personali responsabilità, comunque, Giuda è stato sicuramente “giocato” dai capi religiosi, i quali hanno saputo cogliere l’occasione propizia e forse hanno anche preparato il tradimento, dopo aver intuito una probabile incomprensione fra Gesù e Giuda. Sono ipotesi, naturalmente, ma è certo che tanti pensieri devono essersi insinuati nel cuore di Giuda, prima, durante e dopo il suo patto sciagurato.
 
Quando Gesù, nell’ultima cena, rivolgendosi ai discepoli afferma: «Uno di voi mi tradirà», tutti dicono addolorati: «Sono forse io?». Improvvisamente i discepoli sembrano rendersi conto della loro fragilità. E quali parole taglienti escono, subito dopo, dalle labbra di Gesù: «Il figlio dell’uomo se ne va – perché è giunta la sua ora - ma guai a colui dal quale il Figlio dell'uomo viene tradito; sarebbe meglio per quell'uomo se non fosse mai nato!». Giuda è “colui che ha messo la mano nel piatto” con il Maestro: un gesto di comunione, di condivisione, che lo qualifica come uno degli amici più cari. La domanda di Giuda a Gesù: «Rabbi, sono forse io?» e la conseguente risposta del maestro, non vengono colte in tutta la loro portata dagli altri discepoli. Se qualcuno dei presenti avesse anche solo intuito il dramma, che si stava consumando tra i due, avrebbe certamente tentato di impedire ogni mossa a Giuda.  Solo l’Iscariota le intende, in quanto protagonista del tradimento e quindi, terminata la cena si dilegua. Giovanni, a differenza di Matteo, sottolinea con queste parole il momento dell’uscita dal cenacolo: «ed era notte»; un appunto prezioso, non solo temporale, che riassume in tre parole l’abisso nel quale l’animo di Giuda sta piano piano affondando. Di lì a poco sul Monte degli Ulivi, nell’orto dei Getsemani, avviene la cattura. «Quello che bacerò è lui, arrestatelo»: così dice Giuda, come aveva concordato con i sommi sacerdoti. Il bacio sul viso era un segno di amicizia, diversamente da quello sulle mani, e non voleva indicare altro che il rispetto di un discepolo per il suo maestro. «Amico, con un bacio tradisci il Figlio dell’Uomo?», dice Gesù, come a ricordargli: “Abbiamo lo stesso destino, abbiamo una stessa via, sei parte di me e io parte di te; la tua felicità è la mia, la mia felicità è la tua. Tu sei me”. Questo vuol dire “amico”. Chiamando “Amico” Giuda, Cristo lo dice anche a ciascuno di noi, a ciascuno di quelli che ogni giorno potrebbero tradirlo.
 
Lui, invece, è l’amico che ci sarà sempre, fino alla fine dei tempi. Quando Giuda scoprirà di aver consentito la condanna a morte di Gesù, verrà travolto dal rimorso e dalla consapevolezza dell’enormità del proprio gesto. Gesù è stato condannato ingiustamente, non è l’uomo dai poteri prodigiosi, è anche di più: è l’Innocente. Giuda comprende di aver sbagliato tutto, perciò desidera con tutte le forze di non essere mai nato. Si sente assolutamente imperdonabile. E’ allora che la disperazione comincia a farsi strada nel suo animo. Chissà se Giuda, in quei momenti terribili, avrà pensato anche al significato del proprio nome, Yehudah, che in ebraico, significa “degno di onore”. Era forse uno dei pochi a non essere galileo; il suo appellativo “Iscariota”, inoltre indica quasi sicuramente che era originario di Kerioth o Carioth, una città della Giudea. Che ricchezza simbolica in tutto questo! Ma la situazione esistenziale dell’uomo-Giuda non è meno intensa e importante. Proviamo un attimo a immaginarla. L’attaccamento al denaro, alla ricchezza, non esisteva più in lui, se mai era davvero esistito: tutto il suo mondo crollava. Lui, che si sentiva sempre così determinato, intrepido, a volte spavaldo, sicuro di sapere, come dovevano essere fatte le cose, si trovò a franare, a perdere il contatto con la realtà. Sente riecheggiare nel cuore le parole di Gesù: «Amico, per questo sei qui!». E l’amore per quell’uomo, da cui si era sentito davvero amato, oltre al peso indicibile della colpa, lo schiacciano. Anche Pietro “rinnegherà” Gesù, lo tradirà, ma con il canto del gallo comprenderà, soprattutto, in quel momento così drammatico, di essere, nonostante tutto, guardato da Gesù: lo sguardo di Gesù lo salva.
 
Per Giuda, nel buio scenario del Getsemani, non c’è nessuno sguardo salvifico, men che meno quando riconsegnerà le monete, sporche di sangue innocente. E’ solo, in un vuoto abissale: per lui non c’è più nessun sole che sorge a disperdere la tenebra notturna, perciò decide di affondare nella morte. Eppure, «se l’uomo riconosce la misericordia, si accetta e si affida per essere cambiato da un Altro, l’Altro misericordioso» (Luigi Giussani), allora può accettare anche il suo sbaglio. Don Primo Mazzolari, che ha dedicato parole splendide a “nostro fratello Giuda”, ha scritto fra l’altro: «Il più grande dei peccati, non è quello di vendere il Cristo, ma è quello di disperare. Anche Pietro aveva negato il Maestro e poi lo ha guardato e si è messo a piangere e il Signore lo ha ricollocato al suo posto, sempre come suo vicario. Tutti gli Apostoli hanno abbandonato il Signore e son tornati, e il Cristo li ha perdonati e li ha ripresi con la stessa fiducia. Credete voi che non ci sarebbe stato posto anche per Giuda se avesse voluto, se si fosse portato ai piedi del calvario, se lo avesse guardato almeno a un angolo o a una svolta della strada della Via Crucis: la salvezza sarebbe arrivata anche per lui». Che cosa c’è di più disperante del non accettare di essere perdonati, e quindi amati, dalla persona più cara? Eppure, chi di noi può dirsi certo della perdizione eterna di Giuda? Cosa mai sarà passato nel suo cuore, alla fine, quale ultimo pensiero, quale grido? Una cosa è certa: Gesù, che è Misericordia all’infinito, ha offerto la sua vita per ogni uomo, e dunque anche per il più sventurato, disperato e colpevole dei suoi amici.
DON UMBERTO COCCONI
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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